Nicolas Winding Refn: Solo Dio Perdona
NICOLAS WINDING REFN
Solo Dio Perdona
(Only God Forgives, Fra/Danimarca 2013, 90 min., col., thriller/drammatico)
Per Solo Dio Perdona, è indispensabile proporre una lettura che va oltre il suo contenuto, e derivare da questa prima le limitazioni che i pregi, peraltro eccellenti perchè stiamo parlando di Nicolas Winding Refn, regista con la faccia da ragioniere ma dall’indole abrasiva e imprevedibile (come un certo suo collega danese). Riassumiamo per la cronaca: Julian (Gosling) è uno statunitense espatriato a Bangkok; gestisce con il fratello una palestra che è una copertura per un imponente traffico di droga, controllato, si deduce, dalla madre. L’assassinio del fratello (a sua volta maniaco omicida) perpetrata da un poliziotto in pensione che si crede Dio in terra (da qui il titolo) conduce ad una spirale di violenza ininterrotta.
Cominciamo dicendo che lo spettatore non è chiamato a partecipare davvero alla vicenda, non può mai essere portato ad immedesimarsi in nessuna parte, né quella di Julian né del poliziotto, trovandosi in uno stato di continua (e spesso, irritante) costrizione ad una partecipazione non emotiva, ma razionale. Attorno a questo scopo, il film si indirizza e si forma, con risultati davvero perfetti (scrive un critico sul Guardian: “Every scene, every frame, is executed with pure formal brilliance”). Va da sé che, dal nostro punto di vista, il film non ci è piaciuto, ma ci è piaciuto come Refn l’ha concepito. Banalità: Troppo violento, troppo stilizzato, troppo prevedibile, tutto vero, ma la sua rappresentazione è magniloquente, efficace, senza sbavature, gli eccessi del film sono tanti ma, sorprendentemente, nella sua interezza non è mai eccessivo né dispersivo, riesce ad esprimere chiaramente e senza fronzoli un concetto di impotenza; impotenza incarnata da Julian, personaggio in piena opposizione a quello di Driver (uguale solo nell’impostazione). Julian è veramente un eroe tragico: prova evidentemente una sensazione di inferiorità col fratello e un rapporto edipico con la madre, in confronto alla quale è come castrato (in una scena la madre fa addirittura un confronto tra il sesso dei due fratelli) e manipolato; Julian paga – sul suo corpo – le crudeltà della madre forse per inseguire un miraggio d’affetto, mostrandosi continuamente “inadatto” ad uccidere (e anche ad amare: all’inizio è in camera da letto con una prostituta ma lui si fa legare ad una sedia) e “incapace” (come maestro di lotta, nel momento in cui viene massacrato dal poliziotto nella sfida all’interno sua stessa palestra, con spettatrici – anche qui Freud à go go – madre e amante). Julien è in definitiva il contrario di quel Driver perfettamente a suo agio sulle strade di Los Angeles. L’atmosfera generale è dominata da un clima di fatalismo ineluttabile; non c’è scampo alla vendetta di Dio (il poliziotto), e nemmeno speranza di fuga per nessuno dei coinvolti; di redenzione e salvezza non c’è più traccia, sicchè a dominare è un senso costante di insignificanza della vita (vedi i clienti al ristorante massacrati senza ragione). In questo più di ogni altra cosa si distingue da Drive, divincolandosi dalle aspettative, deluse per molti, e avventurandosi coraggiosamente in territori mai accomodanti; si guarda bene dal replicare il magnifico equilibrio del precedente per imboccare nuove vie, tematiche ed estetiche; in tal senso Solo Dio Perdona non esibisce un grammo di somiglianza con il (quasi) miracolo che lo ha preceduto.
Sul pretesto offerto da Shakespeare, e sul fascino che due suoi testi, Macbeth e Amleto (c’è del marcio in Danimarca, cit.), devono aver esercitato sul cineasta, diremo solo che costituiscono lo scheletro del film, che esibisce una pregnanza non riconducibile tanto al testo (che è “solo” una storia di sangue e vendetta) quanto alla psicologia dei suoi personaggi. Pregnanza esibita soprattutto in ogni singolo comparto tecnico della pellicola. La scenografia: una Thailandia mai esotica che pure negli esterni si carica di claustrofobia; La fotografia: dilatata, nitida, affogata nella luce al neon che letteralmente satura i volumi; Il montaggio: a piani lunghi, grandi carrellate, come in un’evoluzione concertata, che suggerisce lo stato ipnotizzato e allucinato del protagonista; non c’è scena che non sia tesa come una corda di violino, anche quelle in cui non succede apparentemente niente (le due sequenze surreali del karaoke); da notare come Julian incontri il poliziotto in sogno prima ancora di un reale incontro fra i due, come se non fosse un essere umano ma una proiezione delle angosce (delle colpe?) del protagonista: queste sequenze, ambientate negli interni, nell’ombra, sono le migliori del film, e rappresentano la novità essenziale di Solo Dio Perdona rispetto ai precedenti di Refn, qui in grado di evocare un atmosfera onirica degna del miglior Lynch, con Gosling che vaga nei labirinti di una casa (bordello?) prigioniero della sua mente. La colonna sonora: annichilente, ancora firmata da Cliff Martinez, questa volta più elettrica e barocca, con massiccio ricorso all’organo, probabilmente la migliore dell’anno (anche se vagamente somigliante a Koyaanisqatsi di Philip Glass). In questo film, insomma, tutto contribuisce alla realizzazione di questo sentimento di perenne frustrazione, e di impossibilità di una identificazione qualsiasi.
Solo Dio Perdona è un film così violento, assurdo, a tratti irrazionale, da perdere ogni contatto con la realtà. Refn detiene oggi lo scettro di quel cinema che non ne vuole neanche sapere di ancorarsi alla realtà; è tutto finto, artefatto, e pure privo di qualsiasi messaggio. Se visto in un ottica tradizionale, la pellicola non è altro che un pacchiano esercizio di stile senza evidenza significativa; se visto in un ottica “avanguardistica”, la pellicola è invece un riflessione sulla finzione cinematografica e sul rapporto che essa ha con lo spettatore. Insomma, il film è uno solo, e gli spettatori sono di tipologie infinite. Così si spiega, a Cannes, la convivenza di fischi e applausi convinti. A voi il giudizio.
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