Lars Von Trier: Nymphomaniac vol. I e II
In occasione della sua uscita nelle sale ripubblichiamo la recensione di Nymphomaniac di Lars Von Trier.
NYMPHOMANIAC
-VOLUME I e II-
(Dan., Ger., UK, Bel., 240 min., col. e B/N, erotico, drammatico)
“Mea vulva, mea maxima vulva”
Quando il cinema è azzardo, estetica ed evoluzione narrativa, I Cineuforici gongolano. Pertanto, davanti alla nuova fatica di Lars Von Trier, saranno lasciate da parte le inutili polemiche e ci affideremo a quanto visto sullo schermo.
Joe, dopo essere stata trovata da Seligman priva di sensi in un cortile e portata nella casa di quest’ultimo, racconterà la propria storia: è una ninfomane.
Ogni nuovo film di Von Trier è un tentativo di esplorare nuove frontiere cinematografiche, spiazzando sia lo spettatore sia il critico. In questa pellicola, Von Trier si cimenta in una vera e propria costruzione biblica in cui ogni singolo capitolo del volume funge da mattone importante per un risultato eterogeneo. L’eterogeneità, si sa, è un aspetto poco apprezzato al cinema e qui è reso fondamentale.
Il prologo
Se si dovesse iniziare dal prologo, ad esempio, si potrebbero notare alcuni aspetti “eterogenei”, che contrastano fra loro e che fanno fatica ad amalgamarsi in un unicum filmico. Insomma, dopo il magistrale prologo wagneriano di Melancholia, il regista danese si ripete con Nymphomaniac. Schermo nero, per lunghissimi secondi, il rumore di sottofondo, via via più intenso, dell’acqua piovana che cade e che scorre lungo le tegole, i metalli, il legno e la strada. Lo spettatore si estranea ed è costretto a chiedersi, dopo gli interminabili secondi d’oscurità, se si tratta di un errore del proiezionista che ha lasciato la banda audio in balia di se stessa. Il tutto è, però, voluto e, il buon regista, non vuole “farci entrare” nel suo film tramite la consueta immedesimazione, ma con quel distacco necessario che si ha davanti a un pezzo di saggistica. Battendo il ferro quando è ancora caldo, Von Trier non si limita a “non farci entrare” nel film, ma associa a un momento drammatico (il ritrovamento di Joe da parte di Seligman) una colonna sonora alquanto contrapposta: Rammstein, Führe Micht.
I capitoli
La struttura proposta da Von Trier è in sé semplice e molto schematica, forse troppo, ma ha il vantaggio di rientrare perfettamente nel concetto dell’eterogeneità sopra esposto: lo spettatore fatica a entrare nel film e non digerisce la ripartizione proposta dal regista per voce dell’acciaccata Joe. Ogni capitolo inizia con un breve dialogo fra Seligman e Joe. Per introdurre l’argomento, i due non esitano a descrivere metaforicamente il contenuto sessuale del capitolo. Si passa dalla pesca all’arrampicata, dalla matematica all’anatra, dalla polifonia alle icone ortodosse per descrivere l’immagine che appare durante il racconto del capitolo.
Il contenuto
L’accusa di didascalismo deve essere rispedita al mittente. L’opera di Von Trier è da un lato un saggio filosofico visivo sulle varie declinazioni dell’amore, un messaggio alla solitudine della protagonista (dolorosissima verità) e non un semplice elenco della spesa. È la struttura della pellicola a suscitare questa impressione (quasi a voler cancellare una parte degli spettatori) e non il suo contenuto. Molteplici le letture, innumerevoli gli indizi a episodi autobiografici, multiforme l’analisi sociale, filosofica, estetica, artistica, letteraria, poetica, religiosa, umana che Von Trier dà dell’amore. Talmente vasto lo scibile qui affrontato, da risultare insufficiente un’analisi totale dei suoi contenuti.
Dall’altro lato non si può non dire che questo film non parli di vagine, peni, penetrazioni e riempimenti di buchi vari. Si vedono il sesso maschile e il sesso femminile nelle sue varie sfaccettature: colori e peli differenti, in erezione o meno, bagnata o meno. Insomma un’enciclopedia (ancora una volta il rischio di didascalismo è evidente) delle parti intime. Le cose, dunque, stanno in questo modo: sono false e facili le affermazioni di chi vede in Nymphomaniac solo del sesso nel suo livello più istintivo, quanto quelle di chi vede in esso solo la massima espressione filosofica dell’amore al cinema. Nymphomaniac è “pene” e “arte della penetrazione”, “vagina” e “simbologia della maternità”.
L’estetica
Paragrafo a parte, per uno dei maestri dell’estetica cinematografica. Se dell’estetica del prologo si è già parlato, il resto necessita ancora di essere elogiato. Frammenti di Melancholia trafiggono il costato dell’ultima e poliedrica fatica del regista danese. Immagini statiche del cortile in cui Joe è sdraiata e priva di sensi, mentre una leggera neve incomincia a scendere, non possono non far ricordare i momenti di silenzio prima dell’apocalisse del penultimo film di Von Trier. Così come l’orgasmo involuto della piccola Joe, mostrato allo schermo come una levitazione o il momento in cui Joe trova il suo albero-anima.
Ogni capitolo si differenzia dall’altro non solo per il contenuto, ma anche per l’immagine. Si parte con la prima suddivisione, quella del treno, dove i classici campi e controcampi, accompagnati da una tonalità gialla, dirigono l’orchestra. Il secondo, dedicato al rapporto fra la giovane Joe e l’uomo faro della sua vita Jerôme, è più vicino alle prime pellicole di Von Trier: nessuna tonalità particolare, cinepresa a spalla e rarefazione dei campi e controcampi. Dal terzo, che vede una grandissima Uma Thurman, si può passare ai due più interessanti capitoli di Nymphomaniac: Delirium e The Little Organ School, ossia il quarto e il quinto della serie. Uno splendido bianco e nero mostra la fine del padre di Joe, stravolto dalla malattia mentale che lo porterà alla morte (l’inquadratura fra le gambe di Joe in primo piano, che fanno da cornice al capezzale del padre sullo sfondo, è da antologia), mentre lo split screen del quinto capitolo, che illustra la struttura polifonica degli amplessi di Joe, è davvero geniale e visionario. La fase del sesso inteso come dolore, ossia il sesto capitolo, è la più dura e cruda non solo contenutisticamente, ma anche esteticamente. A parte l’immagine del bambino che si sveglia e, solo, si reca sul balcone per accogliere la neve e il Natale, per il resto la fotografia e i rumori sono freddi, rimbombanti e neutri. Il settimo capitolo, ossia la fase della “cura” di Joe, è esteticamente l’espressione del contenuto. Joe, infatti, afflitta da lesioni intime, deve resistere al desiderio sessuale e la fotografia di Manuel Alberto Claro si mostra vicina a questo sentimento riprendendo la luce nella sua bianchezza più assoluta, con una cinepresa che si forza a muoversi il meno possibile. L’ultimo capitolo è buio, perché cupe sono le situazioni in cui viene a trovarsi Joe, le tinte caratteriali della sua protetta, l’ambientazione e la fine di Joe (ossia l’inizio del film).
La fine o l’apologia di Seligman
Seligman, che si è professato come un asessuato, ha ascoltato, commentato e aiutato Joe e, come confidente, ha ottenuto fiducia e sincerità da quest’ultima. È l’innocenza del bambino, poiché ancora vergine, ottimo destinatario per la storia di Joe. Può finalmente riposarsi Joe, dopo che ha raccontato la sua ninfomania? No, non esiste il lieto fine mainstream per Von Trier: l’uomo nei suoi bisogni istintivi rimane sempre legato alla natura, ossia sopravvivenza e riproduzione. Scacco alla società.
Mattia Giannone
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