David Fincher: L’Amore Bugiardo – Gone Girl
DAVID FINCHER
L’Amore Bugiardo – Gone Girl
(Usa 2014, 149 min., col., thriller)
E’ con questo film che David Fincher dimostra di essere il miglior regista di trasposizioni cinematografiche in circolazione. In Gone Girl distilla nuovamente da un best-seller un grande film personale, un’opera perfettamente coerente con il proprio percorso cinematografico. Naturale che un romanzo come quello di Gillian Flynn calzasse a pennello con la poetica e le ambizioni di un regista che ha fatto dei meccanismi narrativi il centro e il motore del suo cinema: Gone Girl verte nuovamente sull’affidabilità della narrazione, e sulle interferenze tra immagine e verità, che in questo film sono portate all’eccesso, fino alla prevaricazione della prima sulla seconda. E’ ragionevole dire che Fincher si supera con Gone Girl, non tanto per le tante e varie qualità del suo film, ma per il superamento dall’interno di quello che è proprio il cinema di Fincher; si supera non perchè Gone Girl sia meglio di film come The Social Network, o Fight Club, o Zodiac, ma perchè Gone Girl è semplicemente più di quelli. Gone Girl corre ancora su quei binari di dualismo e sdoppiamento che ben conosciamo dai suoi precedenti lavori, ma è più denso per via dei diversi registri che strisciano sottotraccia (commedia nera/grottesco/psicologico/thriller/noir), più teso perchè lanciato a ritmo vertiginoso, più grottesco perchè in bilico tra realismo e caricatura; soprattutto Gone Girl va visto come film-gioco mai macchinoso, genuinamente spettacolare per via di rivelazioni e colpi di scena spinti ai limiti dell’assurdo.
Gone Girl
Dentro la storia
Fincher è interessato al contemporaneo. Da sempre. Ogni suo film, fatta forse eccezione per Benjamin Button (che è un film sul tempo tout court) ha a che fare con il contemporaneo: in modo più (Fight Club, The Social Network, Millenium-Uomini che odiano le donne) o meno (Seven, The Game, Zodiac) esplicito. In Gone Girl la modalità sottile con cui affronta il contemporaneo è derivata da una parte dalla critica tagliente messa a punto in The Social Network, e dall’altra dall’abilità ormai ai massimi livelli nel manipolare l’attenzione attraverso materie narrative complesse come in Millenium-Uomini che odiano le donne.
In più, a queste componenti in Gone Girl si aggiunge decisiva l’ironia, che diventa sempre più feroce mano a mano che il film si dipana, facendo emergere un che di disgusto misto a fascino da un lato per i due protagonisti, e quindi per il matrimonio, e dall’altro per i personaggi di contorno, e quindi per la società in cui sono inseriti. Come per Zuckerberg di The Social Network, o per Lisbeth di Millenium, il soggetto è l’individualismo, il movente è la vendetta, il risultato è l’isolamento. Questi tre passi comuni a tutta l’opera fincheriana, individualismo-vendetta-isolamento, non sono semplicemente una mania del regista, ma un’emanazione del contemporaneo. In Gone Girl il contemporaneo emerge nella vita di coppia in forma di narcisismo che da singolo, a coppia, si fa collettivo. Narcisismo nel singolo: Amy per il mondo non è semplicemente Amy, è Mitica Amy, corrisponde agli occhi di tutti come l’eroina di una collana di libri per bambini; la stessa mania di controllo e furia vendicativa provengono dal rifiuto totale di questa immagine patinata che le è stata costruita addosso (e per cosa? sempre per profitto, dai suoi genitori). Narcisismo nella coppia: Nei suoi eccessi, la vicenda di Amy e Nick si fa esempio esasperato di un aspetto molto reale, per cui in tante relazioni, dopo alcuni anni, l’immagine di perfezione comincia a sgretolarsi e la persona con cui si è in intimità si rivela per quel che è, spesso molto differente dalla facciata che si è costruita addosso; rivela così la falsificazione profonda che stava alla base di quel rapporto.
Il film ha quindi molto a che fare con l’esigenza di mantenere alte le aspettative, di alimentare un’immagine finta, ponendo l’accento sul risentimento, e la dissonanza, che si vengono a creare nell’ammettere che la persona con cui si è sposati in realtà non ha rispettato la sua “parte di accordo” nel perpetuare l’illusione. I mass media e l’opera definitiva di piegamento della realtà entrano quindi in scena: narcisismo collettivo. A questo punto non c’è più solo la storia del racconto, con, al suo interno, la storia distorta del diario di Amy, ma anche la storia dettata dai mass media, quella spettacolarizzazione della cronaca che, mettendo in luce a sua volta solo una porzione di verità, quella voyeuristica con maggiore potenzialità di ascolto, si frappone tra pubblico e verità consentendo di perpetuare l’illusione quando la coppia è frantumata. L’apparenza, da intima/personale diventa generale/pubblica, in quanto catalizzata dal circo mediatico.
Dentro il film
Da un testo di partenza già colmo di dettagli Fincher prende solo quello che gli serve (e il film già dura 149 minuti) per avviare e mantenere funzionante il suo dispositivo, e invece di ammorbidirne i passaggi, di renderli insomma più accettabili e plausibili, decide di amplificarli all’inverosimile. Il risultato di ciò è una trama volutamente zeppa di colpi di scena improbabili. Ma proprio perchè Fincher si permette di violare ogni plausibilità, di non avere pretese di rigorosa verosimiglianza, il film è anche un tripudio di ritmo e di suspance. Poichè l’accento è posto sul narcisismo come emanazione del contemporaneo, tutto il mondo rappresentato da Fincher si riempie di un particolare atmosfera, che intorbida gli spazi della pellicola, complice l’intervento del fidato collaboratore Jeff Cronenweth, che calibra la fotografia con toni soffusi, sfumati; atmosfera accentuata nuovamente dalla colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross. Contemporaneo che sta in primo piano quanto sullo sfondo, si pensi ai vari riferimenti della crisi economica: il licenziamento di Nick (perchè la carta stampata non vende più; sopravvive chi si adatta a blog e a siti: ancora il contemporaneo); la crisi della carta stampata (i genitori di Amy in bancarotta; l’avvento immediato di una nuova serie di Mitica Amy dopo il ritrovamento); le immagini girate in un surreale centro commerciale abbandonato nel pieno della notte, ora rifugio di tossici e senzatetto. Non mancano le citazioni: Amy che scende le scale di casa sua trionfante, fotografata e ripresa dalle TV, non può che far tornare alla memoria Viale del Tramonto. Per la sua rappresentazione così fredda e distaccata, Fincher è stato più volte accusato di non essere in grado di far provare empatia nei confronti dei suoi personaggi (e come si potrebbe?), oltre che di misoginia: al contrario di The Social Network, film interamente al maschile, in Gone Girl è il genere femminile non solo ad occupare la scena, ma a determinare gli avvenimenti. L’uomo si riduce a dover sopravvivere in un mondo di donne.
Nel film due attori che meglio non si poteva scegliere: una Pike immensa, che non avrebbe fatto brutta figura nella collezione di bionde di Hitchcock; e un Affleck inespressivo, perfettamente in parte (si pensi alle scene in cui calibra il sorriso finto e di circostanza davanti alle foto e alle interviste dei giornalisti; in Gone Girl questo aspetto è fondamentale, ogni espressione facciale, parola o gesto ha un peso specifico e diviene sinonimo di qualcos’altro al punto di arrivare a definire l’innocenza o la colpevolezza di una persona).
E a prendere le redini di tutto questo, la regia di Fincher: mai così raffinata, mai così glaciale, finalizzata a costruire e scomporre, a cambiare le carte in tavola, a sovrapporre punti di vista, a mostrare solo il necessario per poi smentirlo, ad omettere dettagli, a farli tornare in secondo piano, a fornire falsi indizi, maestro com’è di una struttura a incastri che rende Gone Girl uno dei film più godibili, e allo stesso tempo di qualità, degli ultimi tempi.
Stefano