Intervista a Paul Thomas Anderson su “Vizio di Forma”
In attesa della nostra recensione sul suo ultimo Vizio di Forma, abbiamo tradotto un’intervista rilasciata da Paul Thomas Anderson alla rivista britannica Sight & Sound. Considerando la natura di un film che già dalle premesse (è la trasposizione di un romanzo di Thomas Pynchon, uno degli scrittori più elusivi d’America) si rivela complesso e difficilmente afferrabile, speriamo che con queste considerazioni, di carattere stilistico oltre che tematico, si possa arrivare un pò più “pronti” alla visione in sala…
Il trailer [di Inherent Vice] – sul quale peraltro hai lavorato – suggerisce che si tratta di un film bizzarro. Infatti il film sembra senza dubbio una commedia, eppure si configura, nel complesso, come molto serio e malinconico.
Si. O Dio…Sai, ricordo di aver mostrato questo film ad un amico, e ad un certo punto è diventato, tipo, sul punto di piangere e io ho detto “No, ma è divertente, perchè sei triste?”. Ho provato a dare un feeling al film come se fosse una canzone di Neil Young…Una sensazione simile a quella che il libro mi ha fatto provare. In mezzo a tutte queste ridicole gag, c’è un mood sentimentale – in senso positivo – di nostalgia, dolore, uno sguardo rivolto all’indietro. Pynchon è uno scrittore vicino agli 80, che non si atteggia da vecchio hippie il quale, guardandosi indietro, dice “le droghe erano così buone, la musica così fantastica”. Piuttosto, sembra dire “Avevamo questa cosa alla nostra portata, ce l’avevamo sulla punta delle nostre dita; e invece l’abbiamo sbriciolata”.
Il libro, come il film, ha a che fare con un enorme nesso di temi – gli omicidi Manson, il Black Power, la commercializzazione del sogno hippie – e un’intera serie di trasformazioni culturali nelle quali il passato recente rivive nella Los Angeles del 1970.
C’è un documentario molto interessante, Mondo Hollywood, realizzato nel 1967 da Robert Carl Cohen, sulla Vecchia Hollywood – voglio dire, star del cinema muto, dive invecchiate ecc. [Nel film si vedono] queste dive che hanno comprato queste case a Beverly Hills e che sorseggiano tè mentre gruppi di hippie entrano ed escono come vagabondi dalle loro feste…[…] Quindi sì, [il film rappresenta] questa strana poltiglia di tutte queste cose che apparentemente non hanno niente a che fare le une con le altre.
Non è certo una narrazione facile da seguire, e i dialoghi pure. Mi sono trovato ad ascoltare i dialoghi a un livello puramente estetico, come se fossero astratti, come musica.
Esatto. Non sono uno che segue sempre le trame nei film, mi capita di sorvolarle. Ma quella cosa che Pynchon fa – acquisisci la stessa mole di informazioni che potresti acquisire in un giorno leggendo un quotidiano, un sovraccarico di informazioni. Aprire un quotidiano ogni mattina ti fa sentire come se stessi leggendo un libro di Thomas Pynchon. Nella sua epoca, stava scrivendo di roba tipo teorie cospirative. Sembra che tutti dicano “Ecco, ora sono in grado di far questo – che ci vuoi fare? Si, [il governo] può tenere sotto controllo il tuo telefono”. Le informazioni vengono legate nel modo in cui si legano nel libro, e vorresti essere sicuro che abbiano un senso. Ma ho piuttosto voluto ricreare quel senso sotto forma di mood, permettendo a quei dialoghi di diventar musica, indipendentemente dal fatto che ci fosse o meno musica in sottofondo a quelle parole. E’ una cosa che può frustrare gli spettatori. Ma penso che abbia invece a che fare con l’immedesimarsi in Doc [Joaquin Phoenix]; se “sei” con Doc, se ti importa di lui e di quello che vede e di ciò che gli sta a cuore e di ciò che lo rende paranoico, allora è probabile che molte persone possano immedesimarsi nel film. In definitiva, ha tutto a che fare con una cosa che penso sia identificabile da parte della maggior parte delle persone (inseguire quella persona con la quale non dovresti più avere niente a che fare, eppure eccoti comunque là, ad inseguirla ancora. E’ una trappola nella quale ognuno può essere cascato), una volta che tutto l’aspetto “politico” viene scartato.
Doc sembra essere il terzo stadio di Philip Marlowe – dopo Chandler e Bogart, dopo Altman e la versione di Elliot Gould di Il Lungo Addio. Sembra la versione strafatta di quei detective.
Conosco Il Lungo Addio ovviamente, conosco Il Grande Sonno e conosco Il Grande Lebowski, ma penso che Pynchon avesse in mente questo altro personaggio, certamente in gamba, che tuttavia scopre cose dalle quali rimane comunque sorpreso – scioccato e sorpreso nel venire a sapere un informazione dopo l’altra, mentre probabilmente nel profondo, sotto sotto forse è a conoscenza di tutto; è solo che fino a quel momento si è rifiutato di credere che queste cose potessero accadere realmente. Non conosco i libri di Chandler così bene, ma so che riguardano il classico detective sentimentale (ancora: sentimentale in positivo, nostalgico…). Doc è un sentimentale “ex” dal cuore spezzato, ed è una buona caratteristica per un personaggio. E’ inoltre il personaggio che risolve il caso – forse non può spiegare con certezza come ci riesca, ma lo risolve, forse solo attraverso il proprio buon senso.
Sembra che tu abbia voluto ricostruire un’ideologia sessuale anni 60, in particolare nella scena di nudo di Shasta. Intendo dire: il sogno della ragazza californiana inarrivabile, sembra proprio uscire da quel periodo. Anche se in quella scena Shasta è in pieno controllo della situazione.
Beh, penso che le battute significative siano quelle in cui dice, “Cosa ti aspetti che sia per te? Di che tipo di ragazza hai bisogno? Vuoi che sia una di quelle ragazzine indottrinate di Manson? Vuoi che sia una di quelle piccole teenager sottomesse e arrapate che fanno esattamente quello che vuoi prima ancora che tu sappia cosa sia?”
Ma l’erotismo del film sembra uscito fuori da un Playboy dei tardi 60 – le pose in costume da bagno, ecc…
Niente di male in questo, anzi è il massimo! Quando stavamo facendo il casting per il film, abbiamo visto così tante attrici, ma erano bellezze moderne, di un certo tipo. Katherine Waterson sembra esattamente una di quelle ragazze di copertina di quei anni. E il lavoro è stato indirizzato a presentarla come se fosse in quei anni nel modo più accurato possibile.
Anche lo stile visivo è strano. Come suggerisce il trailer, sembra che tu abbia allestito alcune inquadrature in modo molto preciso, come in alcuni panorami o “affreschi”, momenti come L’Ultima Cena, ma sono così brevi che quasi sembra che tu li voglia gettar via per passare alla scena di dialogo successiva, di solito dominata da piani fissi e primi piani.
E’ claustrofobico. Abbiamo pensato “Sarà fantastico, realizzeremo un beach movie!”, [e invece] siamo stati in spiaggia un solo fottuto giorno! Sapevo cosa avevamo per le mani: una film ambientato in un’epoca, dove l’eroe cammina e parla e acquisisce informazioni ancora e ancora per due ore e mezzo. Perciò necessitava di interruzioni per de-claustrofobicizzarlo, per aprirsi. Sono cresciuto in un’epoca in cui, se devi fare una rappresentazione storica, sei obbligato ad avere una gru in strada per fare senza alcun motivo una carrellata aerea – un mucchio di automobili, un mucchio di cartelli. Che spreco di soldi, tempo e metri di pellicola! Un modo per far sì che il pubblico si sentisse dentro al film era quello di farne a meno. A questo si affiancava anche il fatto di non aver abbastanza soldi – la questione era “qual’è il minimo di cui necessitiamo per “aprirlo” e continuare comunque il filo del discorso?” La gente vuol solo vedere cosa fa Joaquin Phoenix, vuol solo vedere la prossima ragazza sexy, quindi andiamo avanti così!
Ma porti quello stile a livelli perversi: abbiamo soltanto due frammenti dell’Ultima Cena, che devono aver preso comunque del tempo per essere allestiti.
Ma va bene così. Impieghi così tanto tempo, quando cominci, a diventare un professionista; e poi cominci ad impiegare altrettanto tempo cercando di realizzare cose in maniera non-professionale, eliminandone alcune o facendole sembrare “sporche”, accidentali.
Hai girato su pellicola, e catturato un look che evoca le immagini della California dei tardi ’60, con una luce particolare. Come avete fatto tu e Robert Elswit (direttore della fotografia) a raggiungere questo risultato?
Ricordo com’era Los Angeles a metà dei ’70 quando la qualità dell’aria era molto differente; erano quelli giorni in cui non potevi giocare all’aperto a causa dello smog. L’idea è stata di farla sembrare un pò come una cartolina datata, la cover di un album, o una copertina morbida. Stavamo facendo dei test di ripresa e possedevo un pila di vecchia pellicola che è stata per dieci anni nel mio garage, quindi aveva queste imperfezioni dovute al calore – abbiamo filmato con quella, e quando abbiamo visto il risultato, è stato grande. Era deperita, appannata, i neri non erano proprio neri, quasi lattiginosa, come una sorta di flashback istantaneo. Quindi cerchi di ricreare quella sensazioni in termini di tempo d’esposizione e vecchie lenti.
In termini musicali, tiri una palla ad effetto all’inizio con una canzone del periodo, ma di una band tedesca (Vitamin C dei Can). E poi, lo score di Jonny Greenwood è basata sul flauto, che avrebbe potuto suonare tipo flower power – ma sembra piuttosto Debussy.
Si, specialmente in alcune delle parti più orchestrali – “sinistra” potresti definirla. In verità, quella traccia dei Can è del 1972, quindi ho un pò barato. Di cosa parli quel testo non ne ho idea, ma sembra adatto alla storia. Ci sono così tanti riferimenti musicali nel libro – Pynchon sembrava interessato al bubblegum pop, tipo “Sugar Sugar” degli Archies, che stonava un pò nel film. Non volevo che fosse una compilation tipo “il meglio del 1970″.
Stefano