Ruben Ostlund: Forza Maggiore
RUBEN OSTLUND
Forza Maggiore
(Sve 2014, 118 min., col., commedia)
“Denotazione controllata” è una espressione che ben si presta a descrivere Forza Maggiore dello svedese Ruben Ostlund. Tutto il film sembra voler provocare, come tramite una denotazione controllata, una crepa all’interno di un contesto perfetto (sia umano – la famigliola perfetta in settimana bianca, sia ambientale – il resort d’alta montagna), non per distruggerlo, bensì per scrutare al suo interno, smascherandolo.
E infatti Forza Maggiore è un film di smascheramenti, tracciando com’è una parabola di collasso vissuta da un uomo e dalla propria famiglia quando l’uomo mostra i suoi veri colori entrando nel panico e abbandonando i propri cari durante una valanga. Come si può intuire la critica a un certo machismo, e per esteso di una certa famiglia borghese (nordica, ricca aperta colta e poliglotta), è centrale in questo film. Si dice, in un momento del film, che riescono a salvarsi quelli che spintonano e calpestano gli altri pur di sopravvivere (come nel riferimento al traghetto Estonia affondato nel 1994); e così il Padre perfetto, all’arrivo della valanga, prende guanti e telefono e se la dà a gambe lasciando indietro la propria famiglia. Dunque a parte l’uomo e la famiglia, ad un livello più sotterraneo, la pellicola di Ortmund mette in ridicolo tutta l’idea dell’eroismo (e il “Prima le donne e i bambini!”, qui comicamente espresso nel finale), focalizzandosi sull’uomo e sul proprio istinto di sopravvivenza, in aperta (anzi: scoperta) contraddizione con l’ideale del coraggioso padre di famiglia incarnata, all’interno della pellicola, dalla disillusa moglie dell’uomo.
La struttura
La verità è amara e dà scandalo (tutta la parte iniziale), quindi si decide d’ignorarla, o meglio, di sotterrarla di nuovo (tutta la sequenza nella nebbia nella seconda parte), e infine ritorna sotto mentite spoglie (la parte finale). Si intuisce come questa parabola sia stata perfettamente concepita in termini di struttura. La vicenda si estende infatti lungo l’arco di cinque giorni, separati come capitoli, ed è disegnata tra due vertici: l’inizio, la strepitosa scena iniziale in cui in un solo, lunghissimo, take si abbatte la valanga (questa realmente ripresa in altro contesto ma impostata digitalmente sullo sfondo della scena) che, coprendo la scena di un bianco impenetrabile innesta, da un evento trascurabile (la valanga si rivela un falso pericolo), una serie di crepe che si propagano nella parte centrale coinvolgendo la crisi famigliare; e la fine, come in un incubo a metà tra tensione drammatica e commedia satirica, nella sequenza del ritorno a valle del gruppo di turisti a bordo di un autobus con un autista che non sembra essere proprio in controllo del suo veicolo. Entrambe le scene sono spettacolari; una è finta, l’altra non lo è.
L’ambiente
Fin dalle prime immagini il regista svedese ci tiene a sottolineare uno degli aspetti che più ci intrigano del suo film, cioè il rapporto che si instaura tra una vicenda umana e l’ambiente naturale e artificiale in cui essa si svolge. Il controllo è un aspetto che scorre lungo il film, e non è un caso che esso sia ambientato in un lussuoso resort di alta quota sulle alpi francesi. Ortlund sceglie di mostrare, sulle note di Vivaldi, una serie di dettagli dell’ambiente sciistico d’alta montagna, quali cannoni sparaneve e distributori di biglietti. Ci troviamo dunque in un contesto organizzato dall’uomo per controllare un ambiente altrimenti inospitale (se non mortale) per l’uomo, un’ambiente che genera una illusione di controllo per il turista. Il film è veramente tutto un muoversi tra interni minacciosi ed esterni “addomesticati”, con tutto l’apparato di controllo (appunto cannoni sparaneve, motoslitte, e tutto il corredo di attrezzature sciistiche) indispensabile per mantenere funzionante questo ambiente perfettamente artificiale. Pensiamo anche solo agli interni: a volte sembrano più minacciosi degli esterni; e d’altronde è proprio all’interno dei corridoi dell’albergo che l’uomo ha il proprio crollo nervoso, sotto gli occhi di un misterioso uomo delle pulizie. La natura, sia geografica che umana, farà il suo corso: così come la valanga viene provocata, appunto, da una denotazione controllata ma aumenta inaspettatamente di velocità e di volume, allo stesso modo il crollo dell’equilibrio psichico di un uomo provoca una devastante reazione a catena sulla psiche degli altri intorno a lui.
L’imbarazzo
A tutto questo s’aggiunge un grande pregio: il mettere continuamente in ridicolo i suoi protagonisti e i gli stessi propositi della pellicola. Rigoroso e attento come un Haneke nella forma, Ostlund riesce però ad alternare a momenti di tensione emotiva un umorismo molto sui generis. Il regista è particolarmente efficace a mettere in scena una cosa difficile da mostrare: l’imbarazzo. Questo imbarazzo viene puntualmente a galla ogni volta che la patina di equilibrio (di nuovo, delle persone E degli ambienti) viene meno, e in cui viene alla luce la distanza effettiva tra apparenza pubblica e verità privata. La sequenza, ad esempio, in cui l’uomo prende atto del proprio imbarazzo scoppiando a piangere, in un altro film sarebbe stata eseguita rafforzando le componenti drammatiche (recitazione, sceneggiatura), invece qui è spassosa: il pianto inizialmente è finto (smascherato – di nuovo – dalla moglie), e diventa poi così lungo da risultare spassoso, stranamente comico. Forza Maggiore turba specialmente quando parla attraverso le immagini, ed è forse questa caratteristica derivata dal peso della tradizione nordica degli psicodrammi (Bergman, a caso), dalla quale Ortlund deriva anche le scene più parlate, alcune delle quali sembrano essere di troppo (la coppia di amici e la loro crisi, potevano anche non starci in un film altrimenti perfettamente orchestrato).
Spesso quello che viene lasciato tra gli spazi, in Forza Maggiore, è più forte di quello che viene spiegato.
Stefano