Goffredo Fofi su “The Millionaire”: stroncatura di classe
Spulciando recensioni in rete, ho scovato un articolo del saggista e (a mio avviso) ottimo critico cinematografico Goffredo Fofi, che opera una vera “stroncatura d’autore” di The Millionaire di Danny Boyle. E’ bello sapere di non essere l’unico a pensarla come te..
“Danny Boyle è un regista piuttosto equivoco. Da Trainspotting a The Beach a Sunshine, ogni tema o ambiente significativo che ha toccato, egli riesce a sporcarlo con una rozzezza e superficialità che vengono esaltate anziché sminuite dalle astuzie tecnologiche, peraltro a disposizione di tutti i videoclippisti e pubblicitari pari suoi. E non ci si occuperebbe di quella bruttezza che è The Millionaire, un superfilm assai costoso realizzato in un paese dove tutto costa poco o pochissimo, un supervideoclip, una superpubblicità, se non avesse avuto tutte quelle nominations agli Oscar (una cerimonia compromessa e insulsa come poche, fiera annuale della moda e del conformismo insieme a tante altre che hanno finito per imitarla) e non fosse piaciuto a così tanti reverendi del sottogiornalismo.
Molti anni fa – ormai più di venti – ci scandalizzammo di fronte a un filmaccio come Salaam Bombay della pessima ricco-borghese indiana Mira Nair (tredici anni dopo premiata dall’esigente Nanni Moretti, se non sbagliamo, con il leone d’oro a Venezia per un’altra svendita da supermercato di prodotti indiani globalizzati, Monsoon Wedding). Ci sembrò nascesse un nuovo filone, e i fatti ci dettero poi ragione: il film autoctono che vende agli occidentali e ricchi bisognosi di fremiti umanitari le tragedie di un’infanzia disperata, quella di tutti i terzi mondi. Dopo Mira Nair, ecco i brasiliani, i messicani, e via globalizzando.
C’erano stati molti film che avevano ridotto a folklore quelle e altre tragedie, ma erano opera di registi “occidentali” o cinici o stupidi, ed era la prima volta a nostra memoria che a venderle (alla lettera: venderle) trovavamo un regista del luogo, anzi una regista. Citammo allora la massima evangelica della pietra al collo, che ci è venuto spontaneo ricordare anche in questa nuova occasione, quanto meno per la prima parte del film, quella che riguarda l’infanzia. Ma quante pietre ci vorrebbero oggi, e per quanti colli?
In realtà, The Millionaire è un incontro bipartisan tra un venditore di là e un venditore di qua, un indiano e un inglese, appartenenti alle due specie degli ex colonizzati e degli ex colonizzatori, perché il film del regista inglese è tratto da un romanzetto indiano. Ma il successo al romanzetto viene dal successo del film che ne è stato tratto, dalla sua assai più esplicita puttanaggine.
Danny Boyle ha messo in immagini e ha musicato la storiellina molto meccanica del ragazzo povero che vince il “lascia o raddoppia” degli indiani perché ogni domanda gli evoca un episodio più o meno truce della sua esistenza, un passaggio, una “prova” attraverso la condizione di miseria della sua nazione, una condizione che quella nazione vuole oggi che si cominci a considerare come suo passato, forse ancora suo presente, ma certamente non suo futuro.
Il romanzetto ci mette la soluzione miracolistica del gioco a quiz televisivo, il film la dilata fino a farne la metafora di una immensa possibilità, un po’ come il sogno americano dell’arricchimento individuale, ma con la differenza che ieri si partiva dall’ago per arrivare al milione (e magari dalla schiavitù alla presidenza della federazione) ma per i più oggi, che vogliano liberarsi della miseria orientale e meridionale o delle frustrazioni occidentali, c’è solo il colpo di fortuna, “democraticamente” possibile perché se la fortuna è cieca però rispetta e premia la bravura di un singolo nel memorizzare una quantità di dati superflui.
La società dello spettacolo interviene con le sue soluzioni miracolistiche, è lei la fattrice dei miracoli, l’illudi-gonzi, la Madre Pia che più conta. Ed ecco che il povero ragazzo del film, che ne ha passate di tutti i colori e ha attraversato alla lettera un mare di merda, ce la fa, vince, diventa milionario grazie alle prove subite e alla loro memoria , ma alla fin della fine grazie al Caso – l’ultima domanda –, mentre trova l’amore grazie al sacrificio del fratello cattivo, membro della categoria di poveri che ha scelto il modo di arricchirsi sbagliato, quello del crimine a danno dei suoi stessi fratelli.
Le favole moderne hanno di particolare che sono infinitamente più stupide di tutte le favole antiche. Ma purtroppo funzionano. La progressiva decervellizzazione dei popoli a opera dei più diversi sistemi di potere, tutti però coscienti di avere la loro arma d’influenza più grande nella cosiddetta comunicazione, alias pubblicità, porta l’individuo che è in difficoltà, sia là che qua – i miseri i poveri i mezzopoveri i benestanti i quasiricchi – , a riversare la sua fede su quella parodia della speranza offertagli dalla televisione. La televisione come gioco del lotto che unisce caso e memoria, e se un tempo si gridava “nord e Sud (d’Italia e del Mondo) uniti nella lotta”, lo slogan vincente potrebbe essere oggi “Est e Ovest uniti nella lotteria”.
Stefano Uboldi