Wes Anderson: The Grand Budapest Hotel
THE GRAND BUDAPEST HOTEL
(Usa 2014, 100 min., col., commedia)
Ogni volta che una pellicola di Wes Anderson esce nelle sale cinematografiche, timori e aspettative invadono la mia mente. I lettori più assidui de I Cineuforici, ma in realtà anche quelli meno costanti, sanno quanto apprezziamo il lavoro del regista texano. Da qui, l’ansia per ogni sua nuova uscita. Il rischio, infatti, con un’estetica così marcata e autoriale è la perdita di rinnovamento. La mummificazione formale è dietro l’angolo
, così come una dittatura maniaca dell’estetica a scapito di una narrazione povera, insignificante e superficiale. Per fortuna, The Grand Budapest Hotel non delude e riesce a spazzar via, fin dai primi minuti, ogni qualsiasi timore. Lo spettatore seduto in sala, tira un sospiro di sollievo e può godersi la pellicola fino all’ultimo istante.
Gustave H. (Ralph Finnies) è il portiere del lussuoso Grand Budapest Hotel. Lui e il suo collaboratore Zero Moustafa (Tony Revolori), sono coinvolti in un susseguirsi di peripezie dopo la morte di una delle anziane amanti del primo (Tilda Swinton). Fra
quadri rubati, inseguimenti nella neve e invasioni “naziste”, i due non avranno vita facile.
Costanza
Come introdotto poc’anzi, i film di Wes Anderson sono formalmente caratterizzati. Abbondantemente analizzata in precedenti articoli e recensioni, l’estetica del regista texano si ripete in una costanza maniacale anche in The Grand Budapest Hotel. L’ottavo lungometraggio, infatti, ripete insistentemente l’idea di base di Wes Anderson: il mondo deve essere ricostruito, in maniera psico-rigida, in modo da creare un nuovo universo vicino a quello del gioco infantile. I paragoni delle sue pellicole, di fatto, vanno tutti in questa direzione: casa delle bambole, libri pop-up, disegni, fiabe, cartoni animati sono i termini che sono associati per la maggiore alla filmografia del regista. La macchina da presa si muove rigidamente sull’asse delle ascisse o delle ordinate, i personaggi sono caratterizzati da personalità stereotipate, costumi sgargianti (grazie alla perpetua collaborazione con Milena Canonero), suddivisione in capitoli, apparizioni “cartoonesche” di attori famosi che non desiderano altro che “giocare” ogni volta con Wes Anderson, musiche incalzanti (ultimamente dirette da Alexandre Desplat, uno dei migliori) e decorazioni vintage.
Incostanza
Questo è ciò che si scrive in ogni analisi o recensione di ogni suo film. Da qui, si diceva, il timore di rimanere delusi ogniqualvolta una sua pellicola esce nelle sale cinematografiche: la sua estetica, infatti, non è più, all’ottavo lungometraggio, una novità. Quello che cambia, e qui risiede il punto cardine di The Grand Budapest Hotel, è il rapporto che la forma intrattiene con il contenuto. In Wes Anderson, la struttura così caratterizzata si ripete, l’ho detto e si è ripetuto in tutte le salse, costantemente. Essa, però, ogni volta, si mette in gioco e diventa malleabile, grazie al genio artistico del regista e dei suoi collaboratori, in un umile dialogo con la narrazione. Non è il contenuto (la storia per intenderci) che si pone esteticamente ogni volta in una data maniera, ma è la forma che sfuma leggermente dopo aver dialogato con la narrazione. Paradossalmente, ma ciò solo perché in altri registi gli aspetti costanti che si ripetono rimangono per la maggiore sullo sfondo, i film di Anderson sono sempre diversi e The Grand Budapest Hotel rincara la dose della novità.
Novità
Anderson si diverte a proporre la vicenda non solo all’interno di una o due narrazioni, ma addirittura di tre. Una ragazzina, che tanto ricorda la protagonista di Moonrise Kingdom, inizia a leggere il libro The Grand Budapest Hotel davanti alla statua dell’autore. Si entra, così, subito al secondo livello: l’autore, dopo un monologo sull’autorialità e sulla lettura, racconta il suo incontro giovanile con il collaboratore di Gustave H. (terzo livello). Il giovane autore si fa raccontare da uno Zero Moustafa, ormai anziano, le glorie degli anni trenta del Grand Budapest Hotel. Per chiarificare il tutto e per associare l’epoca storica a questo livello di narrazione (il quarto, ossia quello effettivo), il dandy texano propone un formato 4:3. Banale? Sì, se fosse presentato in bianco e nero, mentre non lo poiché mostrato nei “soliti” colori sgargianti andersoniani. Questa struttura claustrofobica, si allontana dalle usuali lenti anamorfiche e dal formato scopelasciando da parte, per una volta, una delle caratteristiche dei film di Anderson: l’importanza di areare lo spazio per riempirlo di elementi secondari ma significativi per la vicenda. Con lo spazio limitato e claustrofobico del 4:3, invece, non si riesce a vedere quello c’è di fianco. L’occhio si concentra sul centro del primo e del secondo piano, tagliando elementi corollari. Il passaggio al 4:3, inoltre, incupisce la vicenda spingendo sui fatti storici delle invasioni naziste. Si tratta di uno dei punti forti di The Grand Budapest Hotel: amalgamare appieno due elementi principalmente distinti, ossia la realtà e la finzione. Anderson inserisce condizioni che “ricordano” la realtà in una struttura fantastica, quasi a far eco alla pietra miliare Il grande dittatore di Chaplin (le SS diventano gli Zig-Zag e l’invasione della Zubrowka ricorda quella della Polonia). La semplificazione andersoniana non è mistificatrice o offensiva, perché è superficiale e infantile (nel senso buono dei termini). Di fronte a una struttura e una narrazione tipicamente giovanile, questi elementi s’inseriscono a meraviglia in un contesto di “narrazione storica delle vicende”, in un’atmosfera fantastica. Non sono così i libri per bambini che trattano argomenti importanti coma la Seconda Guerra Mondiale?
Lo sguardo
Dietro alla patina andersoniana, si cela insomma la realtà storica. Ecco perché, dopo il superbo Moonrise Kingdom, è possibile sostenere in apparenza che Anderson stia affrontando una fase più adulta della sua cinematografia. Stiamo “perdendo” il primo Anderson? Assolutamente no, anzi. Se il contenuto è più adulto, lo sguardo è ancora infantile o, quantomeno, legato a uno stato dell’immaginazione naïf. Non è una contraddizione in Anderson parlare allo stesso tempo di fase adulta e infantile. Nella sua filmografia e, in particolar modo in The Grand Budapest Hotel, i due termini non si autoescludono. Guardare la realtà con occhi infantili, non è una riduzione pericolosa, ma una “riduzione” (se è lecito usare questo termine) necessaria e inevitabile nella storia dell’uomo. Da una fase in cui anche i contenuti erano puerili, si è passati in una fase (o magari è solo un’eccezione) in cui solo lo sguardo è giocoso e finge di essere adulto. Così anche le componenti più mature sono in realtà adulte solo per i bambini, ossia stereotipate e superficiali (nei toni: più parolacce, doppi sensi e così via; nelle atmosfere: numerose le inquadrature buie; nel messaggio).
Lo spettatore
Il distacco da Moonrise Kingdom è, in conclusione, assai netto ma complementare. Nel primo la separazione fra i protagonisti e il regista era evidente, perché con tenerezza Anderson “osservava” bambini che facevano gli adulti, “criticando” il mondo di questi ultimi. In The Grand Budapest Hotel il regista/narratore si finge bambino e guarda come tale il mondo degli adulti. Questa finzione non permette l’immedesimazione dello spettatore. Quando si guarda un film di Anderson, non c’è immedesimazione. Piuttosto, si prende consapevolezza del gioco di Anderson; si sa che Anderson finge di vedere come un bambino, senza mai trasformarsi in esso. Il texano non permette allo spettatore di sentirsi bambino, ma gli permette di vedere un adulto che guarda il mondo con gli occhi dell’immaginazione. Il risultato è estraniante e il successo è garantito. La chiave di Anderson è tutta qui: segnalare il distacco che sussiste fra lo spettatore e la narrazione, condannando implicitamente ogni tentativo d’immedesimazione romanzesca.
Mattia Giannone
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