Michel Gondry: Mood Indigo – La schiuma dei giorni
Mood Indigo – La schiuma dei giorni
(L’écume des jours, Francia 2013, 125 min., col./BN, drammatico)
Adattare un autore come Boris Vian per il grande schermo non è cosa facile, in particolare se si tratta del suo capolavoro L’écume des jours. Solo un regista come Michel Gondry poteva riuscire nell’impresa. Risultato? Molto positivo.
Colin (Romain Duris) è un uomo benestante. Non ha bisogno di lavorare, passa le sue giornate in compagnia dell’amico Chic (Gad Elmaleh) fanatico di Jean-Sol Partre (non è un errore ortografico!), del suo topo, del cuoco Nicolas (Omar Sy) e a suonare il suo pianococktail. La vita di Colin cambierà quando incontrerà e sposerà Chloé (Audrey Tautou). A causa della malattia di quest’ultima (ha una ninfea nel polmone), Colin dovrà dilapidare i suoi averi per curarla e sarà costretto a lavorare, conoscendo così l’estremizzazione dell’alienazione.
L’ultima pellicola di Gondry o si ama o si detesta. Non c’è una via di mezzo, ma non può essere propriamente intesa se non si considera il romanzo originale. La chiave per comprendere la complessa lavorazione del film risiede infatti nel confronto con il libro di Boris Vian.
Lingua, bricolage e narrazione
Il surrealismo dello scrittore francese è un mondo di saturazioni e deformazioni. Numerosi i giochi linguistici (si consiglia, nel caso, una lettura del testo in lingua originale), numerose le caricature, le esecuzioni letterarie dei modi di dire, i sogni reali e gli eccessi di varia natura (da antologia il pianococktail). Chi solo può accettare la sfida di una trasposizione letteraria nella settima arte di una tale idea di mondo, perché di questo si tratta, se non Michel Gondry?
Il regista francese, ha il merito di cogliere appieno l’aspetto artigianale del surrealismo di Boris Vian, lanciandosi in un’idea di cinema che nel terzo millennio può dare fastidio (e qui nascono le critiche negative al film). Infatti, le numerose concezioni architettoniche surreali fuoriuscite dalla mente dello scrittore, si trasformano con il regista francese in lavoro artigianale privo d’effetti speciali al computer. Tutto è realizzato con l’occhio da bricoleur: accelerazioni, animazioni, marchingegni sono frutto della manualità (il finto cuore di Chloé ricorda i lavori per L’arte del sognodello stesso regista). Gondry non esista a mostrare tutto il lavoro grezzo che si nasconde dietro un’opera cinematografica. Insomma una vera e propria bottega d’artigiano. In maniera diversa, si può sostenere che il cineasta non sceglie di affinare le proprie creazioni in modo da spacciarle per vere e reali (ciò che spesso si fa con la computer grafica), preferendo, invece, mostrare l’aurea di finzione che le circonda. La scena del matrimonio, per esempio, vede Colin e Chloé nell’acqua, come se fossero in una bolla o in un acquario, mentre sullo sfondo il resto degli invitati ne è fuori. Per realizzare questa scena, Gondry non esita a proiettare su uno schermo il resto degli invitati nella chiesa durante le riprese con i due protagonisti nell’acqua. Il risultato è come nei vecchi film quando si volevano girare le sequenze in automobile: lo sfondo non era altro che uno schermo su cui sfilava un finto paesaggio ripreso una prima volta e a parte.
Gli spettatori non possono non accorgersi di questo artificio. Le loro reazioni possono essere diverse: negative o positive. Se si è consapevoli del lavoro e dell’origine del film, questi meccanismi superficiali, se si vuole chiamarli in tal maniera, non devono dare fastidio e anzi devono essere ricondotti all’artificialità linguistica (e non solo) dell’idea di mondo che aveva Vian. Davanti all’occhio dello spettatore, infatti, non scorre solo una successione di episodi surreali da far girare la testa. Non si tratta di un numero di prestidigitazione per incantare il pubblico. La quantità astronomica di “trucchetti” è parte integrante dell’opera dello scrittore e come tale non poteva essere declassata per privilegiare il filo conduttore della narrazione, anch’essa molto importante, dedita a rappresentare i paradossi della società, le ingiustizie e le classi sociali.
Sentimenti e colori: la fotografia
Il vero punto di forza del film di Gondry risiede però nella rappresentazione visiva dello stato d’animo della vicenda. Il libro di Vian inizia su un tono totalmente surreale, gioioso e pieno di “luce” che ha il suo apice nel matrimonio fra Colin e Cholé per poi scendere di tono cadendo in una dolorosa tristezza, con la malattia del personaggio femminile e con la sua successiva morte. Gondry coglie appieno questo aspetto del romanzo e lo riporta sullo schermo in modo ineccepibile. Come proporre visualmente il cambiamento di tono che caratterizza l’opera di Vian? Con la fotografia di Christophe Beaucarne. Se gli inizi sono luminosi e colorati, via via che la vicenda si fa più triste e ombrosa (la casa di Colin ha le finestre oscurate) la fotografia diventa prima giallastra (che ricordano le immagini di Darius Khondji), poi grigia con tinte bluastre e anonime, per finire con un bianco e nero molto contrastato dopo la morte della protagonista femminile.
Tutt’altro che da buttare, l’ultimo film di Gondry non poteva che essere realizzato da lui (tutt’al più da Jean-Pierre Jeunet), ossia da una persona che vede il cinema come un’arte manuale e visiva. La pellicola non è fra le sue migliori, ma ha il merito d’essere coraggiosa, come d’altronde lo è il resto della sua filmografia.
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